“JAZZ NIGHTS”: NEL GIARDINO DI PALAZZO CASALINI SI CHIUDE COL BOTTO

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Per un mese, Rovigo è diventata la capitale del jazz: concerti con alcuni dei più talentuosi musicisti emergenti, importanti big del panorama nazionale, leggende viventi giunte da Oltreoceano. E migliore conclusione non poteva essere trovata a questa terza edizione della rassegna “Jazz Nights at Casalini’s Garden – Memorial Marco Tamburini”, che all’indimenticato trombettista e docente del Conservatorio Venezze di Rovigo non poteva non esser dedicata, visto che era stato lui a volerla fortemente nel 2014. Ultimo appuntamento ed ennesimo pienone nel (questa volta) fresco giardino di Palazzo Casalini, con ancora più pubblico del solito, nonostante la scelta di chiudere proprio di domenica poteva creare qualche apprensione. Così non è stato, anzi, molti appassionati non sono riusciti a sedersi e sono stati costretti a seguire i due avvincenti concerti in piedi. Al successo della serata finale ha contribuito, da una parte l’affezione ormai creatasi fra la città e la rassegna jazz estiva promossa da RovigoBanca e dal Conservatorio di Musica “F. Venezze”, dall’altra la presenza di un protagonista assoluto del jazz degli ultimi trent’anni, il chitarrista americano John Abercrombie, che con il suo quartetto ha mandato in visibilio gli appassionati, regalandoci, a dispetto dell’ora, un toccante bis, richiesto a gran voce dal pubblico. Aveva aperto la serata il “Groovology Trio” del sassofonista ravennate Alessandro Scala, completato da Stefano Paolini, docente del Dipartimento Jazz del Venezze, alla batteria, e Leonardo Corradi, all’organo hammond, talento emergente del giovane jazz italiano. Ospite speciale della serata, così come del disco che il gruppo presentava (“Grove Island”, uscito l’anno scorso), era il celebre trombettista torinese Flavio Boltro, uno dei più importanti jazzisti italiani della generazione di mezzo, che con Fabrizio Bosso, Paolo Fresu ed il compianto Tamburini, più o meno coetanei, formava una sezione di trombe davvero “stellare”, che anche le migliori big–band americane avrebbero accolto a braccia aperte. Un jazz fresco e di grande impatto il loro, sanguigno e coinvolgente, intriso di soul e funk, grazie anche alla presenza dell’hammond, capace di comunicare al pubblico quella gioia che traspariva palesemente nei volti dei musicisti in palcoscenico. “Divertimento puro” insomma, per un jazz fatto di composizioni originali ma che affonda le radici negli anni ’50, in quel mood che l’organista Jimmy Smith prima, il chitarrista Wes Montgomery poi, hanno fatto diventare un genere inconfondibile ed ancor oggi molto praticato, che la definizione di “soul jazz” rappresenta forse meglio di ogni altra. Protagonista del secondo set è stato il “John Abercrombie Quartet”. Parlare di John Abercrombie significa innanzitutto entrare tuffarsi a piene mani nella storia del jazz moderno. Il chitarrista di Port Chester, classe 1944, dopo aver frequentato la Berklee School of Music di Boston, si è messo in luce giovanissimo nella difficile scena newyorkese, suonando prima con Jimmy Smith poi con i fratelli Randy e Michael Brecker. Le collaborazioni con Gil Evans, Chico Hamilton, Gato Barbieri ed Enrico Rava, ne hanno suggellato il talento, le successive esperienze del “supertrio” Gateway, con Dave Holland e Jack DeJohnette, ed alla testa di un trio completato da Marc Johnson e Peter Erskine, l’hanno quindi consacrato non solo maestro del proprio strumento, stilista ancor oggi preso a modello dai giovani chitarristi, ma anche musicista originale e completo, compositore sopraffino e leader autorevole. Da anni Abercrombie – che ha lavorato a lungo con il trombettista Kenny Wheeler – incide per la prestigiosa etichetta Ecm (quella di Keith Jarrett e Jan Garbarek per intenderci) ed ogni suo gruppo così come sua nuova incisione sono forieri di positive sorprese. Lo è anche per il suo ultimo lavoro discografico, quel “39 Steps” uscito due anni or sono ma che resta forse uno dei suoi lavori in assoluto più riusciti. Quel quartetto, che trova un mirabile equilibrio nel raffinato dialogo fra la chitarra di Abercrombie ed il pianoforte di Marc Copland – mai in sovrapposizione, mai a cercare di superarsi in virtuosismo – si è presentato a Rovigo in stato di grazia, regalandoci un set che rimarrà scolpito nella memoria di quei fortunati che hanno potuto (e voluto) assistervi. L’album, come il titolo lascia immaginare, è dedicato al maestro del brivido Alfred Hitchcock, e quattro brani, compreso quello che gli dà il titolo, riprendono altrettanti suoi celebri film, da “Vertigo” (La donna che visse due volte) a “Spellbound” (Io ti salverò). È un jazz, quello del quartetto di Abercrombie, in cui la forma non abbellisce il contenuto ma lo crea, un jazz che gioca su delicati e preziosi equilibri melodico–armonici, ed a cui dà un fondamentale contributo l’affiatata coppia ritmica formata dal contrabbasso di Drew Gress e dalla batteria di Joey Baron, il cui “interplay” raggiunge vette altissime. Soprattutto il batterista, sempre sul ritmo ed allo stesso tempo estremamente creativo e delicato, a tratti quasi cantabile, è apparso in grande serata. Il pubblico lo ha capito, ed ha tributato a lui, oltre che al leader, gli applausi più sentiti e calorosi. Archiviata dunque la terza edizione della rassegna, che, rispetto agli anni scorsi, è cresciuta sotto tutti i punti di vista, il direttore artistico Stefano Onorati e il suo staff guardano già al futuro, con la convinzione che lo sviluppo di un territorio passi anche attraverso l’offerta culturale e la programmazione di eventi in grado di lasciare traccia e memoria di sé.

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