Negli ultimi dieci anni in Veneto il numero dei giovani in età lavorativa (15-34 anni) è sceso di quasi 28.500 unità. Questa contrazione della popolazione nella fascia più produttiva della vita lavorativa (pari al -2,8 per cento) ha, rispetto alle regioni del Sud (-15,1 per cento), una dimensione molto contenuta. Tuttavia, nei prossimi anni l’onda lunga della denatalità investirà anche la nostra regione con effetti sul mercato del lavoro molto negativi. Già oggi, infatti, molti imprenditori faticano ad assumere personale, non solo per lo storico problema di trovare candidati disponibili e professionalmente preparati, ma anche perché la platea degli under 34 pronta ad entrare nel mercato del lavoro si sta progressivamente riducendo. Figuriamoci nei prossimi decenni. Insomma, la crisi demografica sta facendo sentire i suoi effetti e nel giro di breve tempo la rarefazione delle maestranze più giovani è destinata ad accentuarsi ulteriormente.
Tra il 2023 e il 2027, ad esempio, il mercato del lavoro veneto richiederà poco meno di 250 mila addetti in sostituzione delle persone destinate ad andare in pensione. Con sempre meno giovani destinati a entrare nel mercato del lavoro, “rimpiazzare” una buona parte di chi scivolerà verso la quiescenza diventerà un grosso problema per tanti imprenditori. Non solo. Ancorché nel Veneto abbia dimensioni molto contenute, il tasso di disoccupazione giovanile è comunque al 13,4 per cento. Insomma, i giovani calano di numero e rimangono ancora troppo lontani dal mercato del lavoro. Il quadro, nel Veneto, si presenta meno sconfortante di altre aree del Paese, ma comunque destinato a peggiorare e rischiamo di pagare caro se, come sistema Paese, non torneremo ad aumentare il numero delle nascite e a investire maggiormente nella scuola, nell’università e, soprattutto, nella formazione professionale.
Alla luce della denatalità in corso nel nostro Paese, appare evidente che per almeno i prossimi 15-20 anni dovremo ricorrere stabilmente anche all’impiego degli extracomunitari. In che modo? Per legge, a nostro avviso, dovremmo stabilire che il permesso di soggiorno, a eccezione di chi ha i requisiti per ottenere la protezione internazionale e di chi entra con già in mano un contratto di lavoro, andrebbe accordato a chi si rende disponibile a sottoscrivere un patto sociale con il nostro Paese. Il contenuto dell’accordo? Se un cittadino straniero si impegna a frequentare uno o più corsi ed entro un paio di anni impara la nostra lingua e un mestiere, al conseguimento di questi obbiettivi lo Stato italiano lo regolarizza e gli “trova” un’occupazione. Sia chiaro: è un’operazione complessa e non facile da gestire, anche perché il tema dell’immigrazione e del suo rapporto con il mondo del lavoro è molto articolato. Non solo; tutto ciò richiede una Pubblica Amministrazione in grado di funzionare bene e con performance decisamente superiori a quelle dimostrate fino a ora.
Il buon esito di un’iniziativa di questo tipo, ad esempio, non può prescindere da una ritrovata efficienza dei Centri per l’impiego, altrimenti la possibilità che l’iniziativa naufraghi è pressoché certa. Grazie al coinvolgimento anche delle Camere di Commercio, dovremo accelerare il processo di avvicinamento e di conoscenza tra la scuola e il mondo del lavoro, senza dimenticare che non potremo rinunciare a un forte incremento degli investimenti sugli ITS e sulla qualità della formazione professionale; materia, quest’ultima, di competenza delle Amministrazioni regionali.